Kamala Harris, il welfare state e la sinistra radical chic
La candidata alla vice presidenza degli Stati Uniti d’America, Kamala Harris, ha tutte le caratteristiche che piacciono ad un salotto radical sic della sinistra statunitense. Quella del partito democratico. Lei sembra uscita da un racconto di Tom Wolfe, il giornalista che nel 1970 scrisse un famoso articolo sul New York time che aggiunse una parola in tutti i dizionari del mondo: il termine, appunto, radical chic, descrivendo il salotto di un miliardario americano (di sinistra) dove si organizzavano party di successo mondano con esponenti del movimento marxista-leninista delle pantere nere, del Black Power. Kamala, che significa fiore di loto, è nata in India. Non in un sobborgo di Calcutta, ma da una ricca famiglia della borghesia indiana. Emigrata in America con la mamma, medico endocrinologo il successo sposata con un professore della Stanford University, si laurea a pieni voti in legge e ovviamente sposa a sua volta un famoso avvocato. La pelle scura e l’impegno professionale e sociale, che la portano a farsi eleggere procuratore nello stato della California, fanno il resto. Diventa un’icona della sinistra democratica americana che partecipa alle manifestazioni Pride, si sbatte a difesa degli immigrati, eccetera eccetera. A Tramp e ai repubblicani viene invece lasciato il compito di rappresentare e difendere quella classe operaia degli stati del Nord, come il Michigan e tanti altri, che ha perso il posto di lavoro e che si abbrutisce nei pub bevendo birra. Una classe di lavoratori che, assieme ai loro figli sempre meno estetici al pari dei padri, non attira certo l’interesse deii salotti radical chic. Qualcosa del genere, anche se in formato ridotto come ogni cosa italiana confrontata con ciò che accade nel continente americano, c’è anche in casa nostra. Non mancano da qui salotti radical chic, dove si commentano gli articoli di Michele Serra e la presenza agli eventi artistici mondani. Questa sinistra nostrana, che a ben poco a che fare con la sinistra storica laica e cattolica – quella per intenderci di un Dossetti, di un Ardigò, di un Berlinguer – è straordinariamente favorevole alla multiculturalità, all’immigrazione senza alcun vincolo di programmazione (a patto che questi immigrati non vadano a rompere le scatole nelle spiagge di Capalbio). Non si pone nemmeno il problema che intere fasce della nostra popolazione sono rimaste senza lavoro in particolare dopo il lockdown: piccoli commercianti, baristi, personale dei servizi ma anche tanti operai e impiegati, non importa se bolognesi autentici o immigrati da poco o da molti anni. Il colore della pelle in questo caso conta ben poco perché il lavoro è mancato per tutti. Noi, come si sa, siamo abbastanza indifferenti alle dinamiche politico-partitiche, elettorali, americane o italiano: quello che per noi è preoccupante è il venir meno, da una parte della classe politica per non dire da quasi tutta, di un impegno e di un’analisi seria riferita alla grande rivoluzione europea (e in parte americana) che si chiama Welfare State. Quella che ha permesso a tante famiglie di uscire dalla povertà e perfino dall’indigenza, di lavorare serenamente, di costruire un futuro per i loro figli e di abbattere barriere sociali che fino a pochi anni prima sembravano indistruttibile. Questo impegno di analisi e di proposte innovative, alle quali Achille Ardigò ha dedicato una vita (tra poco ricorderemo il centenario della sua nascita), non si ritrova né a destra né a sinistra, tantomeno nei salotti radical chic. Speriamo negli studi di tanti giovani e meno giovani, di volenterosi che cercano con serietà di capire ciò che ci insegnano le scienze sociali e l’esperienza di vita, per migliorare la nostra società così messa a dura a dura prova da crisi economiche ed emergenza sanitaria.