La morte di Antonio La Forgia, la sedazione profonda e il suicidio assistito

La morte di Antonio La Forgia, la pratica della sedazione profonda per porre fine a una vita di sofferenze fisiche, merita una piccola riflessione disgiunta dalla contingenza e dalla cronaca politica che spesso assumono i toni della mondanità, anche nei momenti più tragici.
La ‘sedazione palliativa continua profonda’ è stata regolamentata dalla legge sulle Dat (disposizioni anticipate di trattamento, in vigore dal 31 gennaio 2018). Con questa legge , di fatto, si può interrompere una vita attraverso  un’opzione in cui il paziente può chiedere di essere sedato in maniera continua  interrompendo ogni forma di terapia, compresa quella nutrizionale.
Non è un suicidio assistito ma di fatto si assomiglia. La cosa preoccupante, però, è che questa decisione, che dovrebbe spettare al medico e al paziente congiuntamente, in diverse situazioni – in cui quest’ultimo non è già più in grado di intendere e di volere –  può essere presa dal medico ospedaliero con il consenso dei parenti. Entrambi questi consensi, poi, sono spesso subordinate alle circostanze. Non sempre il paziente viene informato anche quando è perfettamente cosciente per non creargli uno grave disturbo emotivo; spesso i parenti non sono psicologicamente o culturalmente nelle condizioni di comprendere e valutare la decisione proposta dai medici ospedalieri; a volte la situazione dell’ospedale è tale, per affollamento di pazienti, che spinge a pratiche semplificate.
Tutto questo porta in Italia ad un uso non sempre umanamente ed eticamente corretto della pratica. Quindi, se ci saranno nuovi provvedimenti legislativi, si spera siano migliori anche  a tutela della vita e dell’esistenza umana della singola persona malata e non soltanto di una generica ‘comunità’ interessata al caso. La vita ha un valore in sé che va oltre ogni interesse o considerazione collettiva, parentale, economica, organizzativa e perfino emozionale.
Nella foto Antonio La Forgia

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