L’ODISSEA DI UN MEDICO MALATO DI CORONAVIRUS A BOLOGNA. LA LETTERA DELL DOTT.SSA LAURA LICCHETTA

San Lazzaro di Savena, 27 marzo 2020
Al Ministro della Salute
on. Roberto Speranza segreteriaministro@sanita.it
al Presidente della Regione Emilia-Romagna on. Stefano Bonaccini stefano.bonaccini@regione.emilia-romagna.it
all’Assessore alle Politiche Sanitarie Regione Emilia-Romagna
dott. Raffaele Donini raffaele.donini@regione.emilia-romagna.it
e per conoscenza
all’ex-Assessore alle Politiche Sanitarie Regione Emilia-Romagna
dott. Sergio Venturi
ai sigg.ri Presidenti degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri
di Bologna e della Regione Emilia-Romagna
al Sindaco di San Lazzaro di Savena avv. Isabella Conti
al direttore generale
del Policlinico Sant’Orsola-Malpighi di Bologna
dott.ssa Chiara Gibertoni
Gentilissimi,
sono un medico neurologo, ricercatore presso l’Ospedale Bellaria di Bologna.
L’ospedale è stato di recente adibito a centro COVID-19 ma già dai primi di marzo si erano verificati i primi casi d’infezione in vari reparti, tra cui quello di neurologia.
Nonostante non avessi avuto contatti diretti con quei pazienti, ho contratto io stessa l’infezione, sono stata ricoverata al Policlinico Sant’Orsola di Bologna per polmonite e attualmente sono in isolamento domiciliare fiduciario in attesa di riprendere il servizio.
Vi scrivo in duplice veste di medico e di paziente, poiché ritengo che la mia esperienza rifletta al contempo l’inadeguatezza della gestione del rischio professionale per gli operatori sanitari, le incongruenze dei protocolli adottati e, cosa più importante, la difficoltà del malato COVID-19 ad accedere alle strutture sanitarie per ricevere un’adeguata assistenza.
La notte tra l’11 e il 12 marzo presentavo febbre oltre 38°C, cefalea, forti artralgie e mialgie. Dati i rischi di esposizione relati alla mia professione (in reparto non eravamo stati dotati di nessun presidio di protezione, nemmeno una mascherina) ho pensato a un’iniziale influenza da COVID-19.

Ho contattato ripetutamente sia la Medicina del Lavoro (utilizzando il numero attivo per operatori sanitari) che l’ufficio igiene chiedendo di poter eseguire un tampone. Ritenevo doveroso diagnosticare da subito un’eventuale infezione per poter allertare colleghi, pazienti con cui avevo avuto contatti e i miei familiari.
Secondo le direttive ricevute, la Medicina del Lavoro non ha ritenuto necessario fare il tampone e mi è stato detto di non adottare nessuna misura cautelativa; non avendo sintomi respiratori avrei dovuto trattare la malattia come una normale influenza e, non appena passata la febbre, rientrare in servizio. – “Anche in presenza di eventuale infezione paucisintomatica da COVID-19, con il rischio di essere ancora infettiva per colleghi e pazienti?” – “Si, perché in ogni caso per i medici non è prevista quarantena”.
Il servizio di Igiene del territorio, il numero ministeriale 1500, il numero verde regionale 800 033 033, una volta contattati, hanno fornito risposte analoghe.
La mattina del 15 marzo, dopo quattro giorni di febbre costante e artralgie così forti da impedirmi di dormire o muovermi (per i quali ho assunto tachipirina e generose dosi di antidolorifici) sono stata costretta a contattare il Pronto Soccorso dell’Ospedale Sant’Orsola. L’operatore mi ha suggerito di recarmi lì di persona, nonostante questo fosse contrario a tutte le istruzioni note.
All’arrivo in PS (ore 11) tachipirina e antidolorifici hanno fatto effetto e sono sfebbrata. Mi viene assegnato un codice bianco e sono lasciata in sala d’attesa fino alle ore 19 quando, esausta, firmo per un’autodimissione. Alle 2 di notte torna febbre 39°, chiamo di nuovo il PS e mi ripetono di presentarmi di persona. Finalmente viene eseguito il tampone il cui esito sarebbe stato disponibile entro 24- 48 ore. O meglio, il cui esito non sarebbe mai arrivato.
Il 18 marzo (dopo sette giorni di malattia con febbre alta e altri sintomi tipici) un collega mi esorta a eseguire una TAC torace nel sospetto di polmonite anche in assenza di chiari sintomi respiratori. Mi suggerisce di chiamare il 118 dove è attivo un “percorso COVID-19” che dovrebbe fornire un’adeguata assistenza sia a me che al mio compagno (malato con i miei stessi sintomi dal 17 marzo).
Gli operatori del 118 mi consigliano di aspettare l’esito del tampone e comunque sono contrari a trasportare anche il mio compagno in PS. Questa volta insisto: sono un medico, ho fatto diagnosi clinica e mi rendo conto che sia io che lui abbiamo bisogno di assistenza.
In PS la TAC rileva in effetti polmonite, per entrambi, e veniamo ricoverati fino al 22 marzo, prima di essere dimessi per proseguire a casa le cure specifiche (idrossiclorochina).
Durante il ricovero scopro che il mio tampone del 15 marzo era stato smarrito, dunque non avrei mai ricevuto risposta e non avrei mai potuto accedere al “percorso COVID-19”. Il tampone viene ripetuto e sia io che il mio compagno risultiamo positivi.
Analizzando a posteriori l’accaduto, in una situazione di ovvia e grande difficoltà da parte delle strutture sanitarie, mi sembra importante sottolineare alcune criticità nella gestione dell’emergenza, peraltro già segnalate dall’Ordine dei Medici di Bologna di cui faccio parte.
Agli uffici di Medicina del Lavoro e dell’Igiene pubblica sono state date direttive che non tutelano né il medico né il paziente e minimizzano il rischio professionale sanitario.
In particolare:
– l’“ottimizzare” il numero dei tamponi ha la conseguenza di sottostimare il numero di contagiati, contribuendo alla diffusione dell’infezione;
– il mancato isolamento tempestivo di casi positivi e l’assenza di adeguate misure di protezione degli operatori stessi porta al moltiplicarsi delle occasioni di diffusione del virus; questo è tanto più rischioso se il possibile caso COVID-19 è un operatore sanitario, che è stato e sarà a contatto con altri colleghi e pazienti;

– l’indisponibilità a effettuare tamponi a domicilio a sospetti casi COVID-19, o comunque in spazi diversi dal pronto soccorso, amplifica a sua volta la diffusione del virus;
– l’indisponibilità a effettuare tamponi tempestivamente, impedisce di formulare una diagnosi precoce e di sfruttare quella finestra terapeutica utile a gestire l’infezione senza complicanze;
– il ritardato accesso alle cure mediche (che nei casi meno gravi potrebbero essere prestate anche a domicilio) e alle strutture sanitarie ha come conseguenza la gestione di casi con polmonite conclamata e già complicata, che allunga i tempi di degenza e le spese sanitarie, aumentando la mortalità e morbidità.
Grazie alle segnalazioni dell’Ordine dei Medici, ho potuto costatare con soddisfazione che si stanno già affrontando molte di queste criticità. In alcuni comuni sono state già attivate misure di assistenza domiciliare e nel comune di San Lazzaro, dove risiedo, è stato istituito un punto-tamponi “drive through” accessibile in automobile.
Ritengo però che queste iniziative debbano avere un respiro più ampio, per un miglioramento della gestione dell’emergenza su tutto il territorio nazionale.
Spero che questo contribuisca a stabilire protocolli più efficienti e servire ad altri pazienti e operatori sanitari nelle mie stesse condizioni.
Con i migliori auguri di buon lavoro, distinti saluti
Dott.ssa Laura Licchetta

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