“Notte in sottopalco” di Achille Ardigò

Il brano trascritto è pubblicato dal settimanale L’Appello, diretto da Raimondo Manzini, pubblicato in
Bologna dal 1 novembre 1945.

Pomeriggio d’un giorno velato di pioggia del febbraio ’44. La solita tristezza della città in attesa, mentre le granate scoppiano a tratti, lassù, fra quelle colline buie, da cui sembra debbano sorgere d’un tratto e poi rovinare a valle le infrante schiere dei barbari.
I nostri animi sono induriti e chiusi, come in un pugno, contro l’insulto tirannico e contro il freddo.
Arrivano certi momenti che occorre premere forte sulla bocca per non urlare, urlare quelle parole di libertà e riscossa, che domani suoneranno false di nuova retorica, ma che oggi ci fanno piangere di non letteraria ebbrezza. E intanto lo sdegno s’appesantisce ogni giorno più, sopra quest’irti pensieri e nei battiti di questo sangue malato di esasperazione.
E’ venuto da me, improvvisamente, Roberto, il comandante del battaglione.
Le S.S. hanno arrestato Egisto – mi ha detto con la sua calma meditata che i dolori e gli entusiasmi non turbano. – Forse lo pedinavano da qualche giorno, dopo l’affare del «mitra».
– Temo ci abbiano scoperti tutti, del centro; conviene cambiar aria, prima che sia troppo tardi.
– Andremo da Gianni.
Poche parole di saluto in casa; dico alla mamma che mi porti da mangiare domani, in piazza C., a mezzogiorno, e me ne vado prima di scorgere la commozione contenuta e profonda di quel volto segnato da tutte le sofferenze.
Mi turba il pensiero d’apparire ai suoi occhi e al suo cuore, che sente i miei stessi palpiti, qualcosa di romantico; no, sono un povero diavolo che non sa neppure sparare un colpo di pistola. Porto via il libri e i fogli proibiti, un pezzo di pane e una mela, la stilografica piena e un po’ di carta bianca caso mai dovessi rimanere lontano a scrivere il nostro piccolo giornale di battaglia «La Punta».
Su va per l’umile strada, verso quartieri devastati dalle bombe, mentre ci penetra in corpo qualcosa, che non sai se pioggia o nebbia, e mette un brivido sottile di malinconia. Coi nostri passi cammina la sera, pallidi s’accendo in chiarori dei negozi e dei caffè e la gente pare indugi con piacere nell’ultime vie luminose, prima di entrare in periferia, senza illuminazione elettrica e senza vita.
– Sarà bene prendere un punch, dato che stanotte patiremo il freddo – dice Roberto.
Il calore della bevanda risveglia in me zampilli di euforia estetica che sembra decisa a non separarsi mai neppure dalle mie più scavate e disperate meditazioni. Mi sento camminare, m’inquadro in una sequenza finale d’un film di rievocazioni risorgimentali, godo della luce di un lampione che ci investe all’improvviso e rende incerti i contorni delle persone vicine.
Intono, con la voce interna, una sinfonia che accompagni il nostro passo trionfale, una sinfonia sempre più ampia col motivo iniziale preso e rilanciato con forza montante, faccio intervenire tutta l’orchestra, solenne ed eroicamente tumultuosa, con le vibrazioni che si ripercuotono nel petto e sembra farlo scoppiare.
Mi sovviene dell’unico pezzo wagneriano che conosco.
Se dovessi morire, vorrei morire così – penso- avvolto da questa commozione di grandezza trasumana.
Sono certo che allora pronuncerei una frase di quelle che restano, che fanno epoca, che sono scritte nei libri delle elementari. Penso ancora che se mi mettessero in qualche prigione, da solo, pregherei Iddio per avere, ogni sera, questi attimi di fermento epico, per scrivere le pagine più ispirate della mia opera nova su «L’avvenire della democrazia» – o forse mi contenterei di fissare con mano tremante le parole d’una dolce lettera all’amico dell’anima.
«Ti scrivo da una cella del carcere di …. tormentato dal freddo e dall’arida solitudine…».

***

Ma l’oscurità della via, dove abita Gianni, si getta d’improvviso contro questo colpevole fantasticare. Impreco all’evasione furtiva dei sentimenti svagati che sabotano ogni dolore; non voglio dimenticarmi di lui, della prima sera di carcerato del nostro giovane amico, delle sue vere sofferenze.
Roberto si preoccupa del perduto collegamento con la squadra di Egisto.
– Però, se torna fuori gliene dico quattro…
– Non ha mai voluto farmi conoscere uno dei suoi. Ora se ne accorge!
– gli sta bene, se la scampa…
Prima di suonare da Gianni, al terzo piano d’una delle ultime case della via, ci fermiamo ad una finestra della scala, che guarda, fra una selva di comignoli, laggiù i nostri colli. Ci si accorge all’ora dell’insolito fracasso delle granate. E’ un temporale di colpi, un sibilare rabbioso e più vicino che mai, e poi scoppi, così forti che ci allagano il respiro.
– Hanno iniziato l’attacco, – dico – potrebbe essere la volta buona.
– E’ probabile – mi risponde, piano, Roberto dopo aver fatto il conto delle batterie in azione.
E rimane lì, con le braccia sul davanzale, ad ascoltarsi il canto ritmico dei cannoni, lui, allievo ufficiale di complemento che ricorda il suo «pezzo» di quando era in Croazia [regione dei Balcani invasa dagli italiani durante la Seconda Guerra Mondiale] con lo stesso amore con cui parla degli studi di medicina.
– Se mi arruolo con gli Inglesi, torno in artiglieria…
Ci fanno attendere Gianni nella sua stanza.
Roberto si ferma a guardare la copertina d’un romanzo, dove un impiccato pende da un ferro sporgente da un’alta casa.
Gli è entrato in faccia un improvviso turbamento, così strano per lui, il più coraggioso dei nostri.
E’ come se avesse ricevuto uno di quei misteriosi preannunci di morte, di cui spesso abbiamo discusso; ma è forse la pioggia, la solita pioggia di fine inverno, che addensa tristezze in fondo all’anima.

***

Il saluto di Gianni è un risveglio; contro la sicurezza del suo entusiasmo non c’è malaugurio che tenga. Siamo venuti da lui per nasconderci. Egli è visibilmente contento di questo; di offrirci ospitalità, finalmente, nel suo decantato rifugio – «che neppure un reggimento di brigate nere [è la denominazione di un reparto militare di volontari fascisti – nota mia] potrebbe scoprire». La «formidabile organizzazione Gianni» si mette in moto.
Ci conduce fuori; entriamo in un sentiero con attorno solo macerie e un ponticello nebbioso. Apre la porta di una casa che è invece il teatrino parrocchiale, tutto danneggiato, tutto danneggiato dall’esplosioni. Ci conduce in palcoscenico, toglie alcune assi mobili al centro e s’apre quella buca da cui sorgono, incerte terribili rappresentazioni delle compagnie drammatiche della parrocchia, le anime in pena, avvolte nel lenzuolo, o qualche fata – di quelle col cono in testa, che brilla per la stagnola dorata – o la morte, fra vampate di magnesio.
Il sottopalco non ha tuttavia fiamme e demoni ma tanta polvere e lana sporca frammista a vetri rotti. Mi sembra d’iniziare una di quelle audaci avventure di ragazzi, alla ricerca di un posto segreto per il tesoro, fatto di spade, d’archi, di lance di legno. Gianni raccoglie la lana, stacca due porte e le mette sopra di quella, come lenzuolo, come lenzuolo, scompare ritorna con tante coperte, l’accompagna un nostro iscritto del luogo, portando cuscini troppo belli, del piano troppo bianco, delle grosse mele e del salamino di maiale autentico. Accediamo due candelotti da chiesa.
L’amico dalla splendida anima d’apostolo, se ne va con rimpianto. Restiamo noi tre, sotto, a guardarci infantilmente felici. Si ricalano le assi sopra le teste. Attimi di polvere e di soddisfazione: siamo soli. Spartite le provviste, comincio a masticare il pane bianco e il salame vero, con la lentezza golosa che rigusta i profumi e sapori da gran tempo scordati. Poi, ognuno si stende, si ricopre, s’acqueta, sotto la legnosa volta. Riprendiamo a parlare, piano, quasi qualcuno stesse in ascolto, per scoprirci. Gianni racconta come riuscì a non andare in Germania. L’avevano preso che veniva giù dalla «banda», con la rivoltella in tasca.
– Ci condussero in un paese di qua dal Po. Prima di entrare alla visita, ho aperto l’«Imitazione di Cristo». Il versetto parlava della fiducia in Dio. Ho avuto la certezza di essere salvo. Il medico che visitava era un mio conoscente.
– Inabile, n.3. Foglio di viaggio per il ritorno.
Quel pomeriggio ho fatto più di 40 Km, a piedi, per tornare. Ne avrei fatto anche 80. Il Signore mi ha nelle sue mani. Pensiamo tutti e tre alle stesse cose, ai nostri compagni dell’Appennino, a quelli che sono in prigione, a Zagnini che soffre a Mauthausen, ad Egisto, al nostro movimento che vorremmo sempre puro e deciso come oggi, ad Angelo.
Pensiamo alle ingiustizie del mondo, alle colpe antiche e recenti dei ricchi; ad un Cristianesimo d’avanguardia. Sento venirmi alla bocca amare parole di condanne che domani lancerò sul volto dei ricchi insensibili che si dichiarano cristiani.
Si muovono i topi attorno a noi, ora che i candelotti sono spenti.
Mi nasce, all’improvviso, il desiderio di piangere, su questo mondo così strano, sul cuore mio giovane, che solo ora par comprenda la vita. Ho voglia di piangere, come uno di quei bambini scalzi e abbandonati, che dormirono accanto a Gavroche, nel ventre dell’elefante.

Achille Ardigò

 

 

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  1. 5 anni fa

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